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La diffusione del capriolo in Italia

Storia del quadrupede e dalla sua presenza sulle tavole reali

Nel 1980 Mario Rigoni Stern, il grande Alpino e scrittore dell’Altopiano di Asiago, in Uomini, boschi e api, chiosava: «Vorrei che tutti potessero ascoltare il canto delle coturnici al sorgere del sole, vedere i caprioli sui pascoli in primavera, i larici arrossati dall’autunno sui cigli delle rocce, il guizzare dei pesci tra le acque chiare dei torrenti e le api raccogliere il nettare dai ciliegi in fiore». Oltre due secoli prima, nel 1758, Carl Nilsson Linneo aveva classificato il Capriolo (Capreolus capreolus), andando a definire morfologicamente e geograficamente la popolazione europea di questo ungulato appartenente all’ordine degli artiodattili e alla famiglia dei cervidi (animali dai palchi pieni e rinnovabili annualmente). Nel 1925 Festa, in seguito alla disamina di alcune pelli provenienti dalla Tenuta di Castelporziano (Roma), descriveva una sottospecie italica, un endemismo italiano non molto pronunciato numericamente che ancora oggi si localizza prevalentemente nel Gargano, nel senese e nel grossetano e, in misura inferiore, sul Pollino e nella odierna Tenuta Presidenziale di Castelporziano. Globalmente nel nostro Paese la specie europea, dal 1980 al 2010, ha conosciuto un incremento di presenza di oltre il 340%, attestandosi presumibilmente su una popolazione di circa 450.000 esemplari (Apollonio 2019). Nell’ultimo decennio non pare in flessione il dato dimensionale, mentre, invero, è cambiata la distribuzione geografica, localizzata, sì, prevalentemente su aree pedecollinari, appenniniche o alpine (non alle quote più elevate), ma andando a interessare non più in via eccezionale le pianure, in particolare quella Padana. Ciò è avvenuto prima per esplorazione e dispersione di individui singoli, in genere giovani maschi (già rilevati negli ultimi anni del 1900) in cerca di nuovi ambienti utili per disponibilità di fonti trofiche e rimesse, percorrendo da monte a valle golene, conoidi e fasce perifluviali. Poi si è registrata una sequenziale e progressiva stabilizzazione planiziale di piccoli nuclei che trovano utile allignare presso ripristini ambientali, macchie, radure e corridoi ecologici creatisi a seguito di bandi regionali discendenti da piani di sviluppo rurale (es.: Emilia-Romagna) o per via di interventi riqualificativi o di consolidamento operati da Enti Gestori di Parchi, Riserve Naturali o Siti della Rete Natura 2000 (prescrizioni previste dal Decreto del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare del 17 ottobre 2007 e dalle norme regionali di recepimento). Questo apparente successo nazionale complessivo, raggiunto anche grazie a passate reintroduzioni, nasconde una storia e un percorso storico, sociologico e territoriale non scevri da luci e ombre. Infatti, laddove l’Europa continentale e, ancor di più, il Regno Unito per tutto il corso del 1800, cercavano in maniera prodromica di dare organicità agli studi relativi alla morfologia, all’anatomia comparata e alla storia naturale inserendo il criterio della conservazione della fauna selvatica e coniugandolo, in parte, con gli studi evolutivi darwiniani (Darwin stesso entrò a far parte della Zoological Society di Londra pubblicando poi i risultati delle sue ricerche in The Zoology of the Voyage of H.M.S. Beagle), per contro le attività scientifiche e universitarie italiane nel XIX secolo erano fortemente influenzate nel trattare di selvaggina come di una variabile dipendente dall’esercizio della caccia e dalla primazia della trattazione dell’agricoltura nella sfera degli argomenti sulla natura. La caccia, fino all’Unità d’Italia, veniva esercitata come diritto di censo, di proprietà o latifondo ed era regolata con un retaggio di norme o consuetudini provenienti dai singoli Stati pre-unitari. Gioacchino Napoleone Pepoli (1825-1881), Sindaco di Bologna dal 1866, poi Senatore del Regno d’Italia, intuì le necessità di conservare la fauna selvatica e regolare la caccia; fece suo il primo progetto di legge post unitario sulla caccia, avanzato il 18 novembre 1862; era lungimirante, prevedeva la tutela dei selvatici, almeno fuori dei periodi di caccia consentita, si aprirono occasionali dibattiti parlamentari che si riaccendevano ciclicamente ma sempre percepiti dal Parlamento del Regno come un tema marginale. Il risultato fu che la prima Legge post-unitaria sulla caccia uscì nel 1923 (R.D. 24 giugno 1923 n°1420); per 62 anni dall’Unità d’Italia si è cacciato con le regole dei Ducati e dei Regni previgenti, vale a dire con vasti elenchi di specie consentite, con rari periodi di divieto per rispetto riproduttivo e con accesso al diritto fortemente di casta. Vittorio Emanuele II stesso era un cacciatore; vero è che decretò rigorose disposizioni nell’allora tenuta di caccia reale del Gran Paradiso: erano misure certamente antesignane e positive, ma in genere finalizzate alla difesa degli stambecchi e della selvaggina reale. Di fatto il Gran Paradiso divenne il primo Parco Nazionale d’Italia solo 44 anni dopo la sua morte. In questo scenario di nazione giovane e con forti problemi interni da risolvere, il capriolo registrava, paradossalmente, maggiori contingenti di presenza nella nostra penisola prima dell’Unità d’Italia, che dopo. Fino alla metà del 1700 il capriolo era stimato come abbondante e ben distribuito in tutta l’Italia continentale e in Sicilia; in alcuni Stati italiani come il Granducato di Toscana si comminavano ingenti pene pecuniarie e perfino corporali per i bracconieri (pene riconfermate sotto la Reggenza Lorenese, nel 1755). Similmente a quanto accaduto ad altri ungulati selvatici, la crescente antropizzazione delle zone rurali nel passaggio tra l’età moderna e quella contemporanea ha sortito una progressiva ma marcata diminuzione sia numerica sia di areale. Questo processo ha caratterizzato tutto il territorio italiano e fu particolarmente intenso nell’Italia meridionale e in Sicilia, dove il capriolo arrivò all’estinzione prima della fine del XIX secolo (Pedrotti et al., 2001). Ai Boschi di Carrega, nelle colline sopra Parma, nella zona di Sala Baganza, malgrado la Duchessa buona Maria Luigia d’Asburgo-Lorena, Duchessa di Parma, Piacenza e Guastalla fino al 1847, fosse molto attenta alla consistenza numerica della popolazione dei caprioli, che erano oggetto di cacce nobiliari, l’accennata e successiva incertezza dello Stato italiano nell’affrontare organicamente il tema della caccia, del bracconaggio e della gestione della risorsa fauna fece sì che la specie venne pressoché estinta alla fine del 1800.

 

Stefano Bussolari

Il capriolo fu poi reintrodotto ai primi del 1900 a scopo ornamentale e venatorio, mescolando in tal modo popolamenti antichi con altri più recenti. Quindi, benché il Ducato di Parma fosse uno dei pochi Stati italiani che prevedevano un calendario venatorio con una interruzione della caccia dal 1° marzo al 30 giugno, «durante la riproduzione della selvaggina», la giovane Italia non seppe cogliere e migliorare questi spunti sul tema che, verosimilmente, veniva trattato come un’appendice disorganica dell’agricoltura e del latifondo verso il quale non si voleva togliere nessun privilegio. I principali fattori che determinarono il marcato declino di presenza della specie capriolo iniziato a fine 1800 e proseguito sino a oltre la metà del 1900, sono da ricercarsi nell’uso intensivo del suolo agricolo, nel disboscamento del territorio, nella scarsità di risorsa alimentare per i residenti delle valli che ha caratterizzato i due periodi bellici con conseguente incentivo verso il bracconaggio sia con le armi da fuoco sia con le storiche insidie (reti, lacci, buche e tagliole). Si materializzò anche la caccia di massa che ha contraddistinto la politica venatoria della prima Italia repubblicana, avvenuta senza porre la necessaria attenzione alla formazione tecnica e gestionale dei cacciatori.
Un primo pionieristico tentativo di trasmettere contenuti scientifici alla gestione della fauna e della caccia nel 1900 lo si deve al Prof. Alessandro Ghigi, che nell’ambito dell’Istituto di Zoologia dell’Università di Bologna. Nel 1933 fondò il Laboratorio di Zoologia Applicata alla Caccia, un organo nazionale scientifico-tecnico con specifiche competenze nello studio della fauna omeoterma (mammiferi e uccelli). Nel 1977 il Laboratorio divenne l’Istituto Nazionale di Biologia della Selvaggina, nel 1992 Istituto Nazionale per la Fauna selvatica (con sede a Ozzano Emilia); nel 2007 l’Istituto venne aggregato all’attuale I.S.P.R.A. (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale). La dimensione della popolazione italiana di caprioli, dopo aver protratto la fase più critica dal 1945 al 1960 – minimo storico presunto di non più di 10.000 capi, distribuiti prevalentemente tra alta Lombardia, Alpi centro-orientali, Italia centrale più alcuni nuclei anche nel Gargano e in Calabria – registrò un nuovo incremento a partire dal boom economico degli anni Sessanta sino ai giorni nostri, ricolonizzando sia il proprio areale storico sia nuovi territori, anche planiziali, con quell’incremento veramente imponente tra il 1980 e il 2010 che ha portato alla odierna dimensione di oltre 400.000 capi attendibilmente stimati. Questo esito si è prodotto grazie alla sostituzione di aree marginali agricole con aree di macchia, radura, alberature, siepi, corridoi ed ecotone; con la diminuzione degli appassionati seguaci di «Diana Caccia» (unitamente alla loro maggiore formazione sulle modalità dei prelievi in selezione) e con lo spostamento su nuovi habitat di soggetti provenienti da nuclei residui, spesso integrata da operazioni di reintroduzione con individui di provenienza alpina o centro-europea. Queste ultime operazioni sebbene abbiano contribuito in maniera importante al recupero della specie, hanno causato l’inquinamento genetico delle popolazioni autoctone interessate dal fenomeno (Casanova et al., 1993).
In larga parte del territorio della penisola il capriolo ha trovato un ambiente congeniale; essendo un erbivoro ruminante e un brucatore selettivo predilige i boschi e le macchie di latifoglie (querceti, castagneti, faggete e comunque formazioni arboree giovani con sottobosco e arbusteto) e l’intercalare con situazioni di transizione e osmosi tra bosco e prato o radura. I margini del bosco e le fasce ecotonali si caratterizzano come gli ambienti in cui la densità dei caprioli risulta più elevata, potendo qui reperire alimenti a elevata concentrazione proteica come gemme e apici fogliari. Il comportamento sociale del capriolo è mutevole a seconda delle stagioni; d’inverno potrete osservarlo più frequentemente con abitudini gregarie e in formazioni familiari strutturate; in primavera e in estate conduce vita sostanzialmente più solitaria, con i maschi che marcano (sono all’uopo provvisti di ghiandole cutaneee facciali) e difendono il proprio territorio scacciando i consimili. Per l’osservazione Vi consiglio un binocolo da almeno 7 ingrandimenti con una lente di uscita di 42 mm per avere una buona resa all’alba e al tramonto, quando è più facile scorgerli, e/o un cannocchiale da almeno 30 ingrandimenti per effettuare il riconoscimento di sesso ed età. Il comportamento territoriale primaverile/estivo prevede marcature effettuate da entrambi i sessi con ghiandole metatarsali, con funzione di richiamo sessuale, e interdigitali posteriori con funzione prioritaria di riconoscimento intraspecifico. Evidenze di questa attività sono le “piazzole”, (piccole aree di territorio raspate con gli zoccoli) e i “fregoni”, scortecciature e segni lasciati dal palco, che si sviluppa nel periodo invernale per poi cadere in novembre, sfregato dal maschio contro cespugli ed alberelli nella stagione degli amori che cade tra luglio ed agosto ed è caratterizzata da lunghi corteggiamenti. La base delle stanghe del palco del capriolo riscontra un ingrossamento chiamato rosa, più in alto, nel palco formato, abbiamo tre punte denominate oculare, vertice e stocco. Essendo un piccolo cervide riscontra una lunghezza fino a 120 cm, ed una altezza alla spalla di 75 cm., circa; il maschio adulto pesa dai 21 ai 28 kg., circa, (con esemplari che superano i 30 kg.) e la femmina adulta pesa dai 20 ai 23 kg., circa. I piccoli (1 o 2, rari i parti trigemini) nascono alla fine della primavera; la gestazione dura circa 9 mesi e mezzo; infatti l’ovulo, una volta fecondato, si impianta nell’utero materno, ma rimane quesciente fino a dicembre, quando riprende a svilupparsi (questa caratteristica viene detta diapausa embrionale).
Nel periodo che va dalla tarda primavera all’inizio dell’estate (maggio-giugno) le femmine partoriscono 1 o 2 cerbiatti dal caratteristico e provvvisorio mantello bruno rossastro con originali pomellature bianche sul dorso e sui fianchi. Questa peculiare grazia naturale ha contribuito a rafforzare i miti e le leggende sui Caprioli; l’Austriaco Felix Salten scrisse: Bambi: Eine Lebensgeschichte aus dem Walde (Bambi la vita di un capriolo), pubblicato per la prima volta nel 1923 (casa editrice Ullstein Verlag). Il piccolo Bamby, ispirò poi il leggendario cartone animato in lungometraggio della Disney uscito nel 1942. La Disney cambiò la specie di Bambi in un cervo dalla coda bianca, anzichè capriolo, dal momento che i caprioli non erano molto conosciuti negli USA e il cervo dalla coda bianca sarebbe stato più familiare per il pubblico locale. Il film ricevette tre nomination agli Oscar: miglior sonoro (Sam Slyfield), migliore canzone (per Love Is a Song cantata in originale da Donald Novis) e migliore colonna sonora. Fu il film col maggiore incasso nell’anno 1942 e contribuì a infondere messaggi di pace in pieno conflitto mondiale. In Europa la lirica sul capriolo risale alla notte dei tempi, negli scritti della tradizione gallese, che decodificano “La Battaglia degli Alberi” (Câd Goddeu), poema contenuto in un manoscritto del XIV secolo, facente parte del Libro di Taliesin, il quale appartiene alla tradizione dei poeti bardi celti, si racconterebbe di una contesa originata dal furto di tre animali, perpretato ai danni di Arawn, divinità celtica. Nel poema i tre animali sarebbero un cane bianco, guardiano del Segreto, un capriolo, che nasconde il Segreto, ed una pavoncella, che maschera il Segreto. Segreto probabilmente inteso come “forza spirituale”. Il capriolo albino venne sottratto durante la caccia alla divinità dell’oltretomba celtico di cui è il custode, che si avvaleva dell’aiuto di bianchi levrieri per imprigionare le anime dei defunti. Il capriolo rappresentava quindi un simbolo del viaggio dell’anima verso l’aldilà. Il capriolo oltre ad ammantarsi di forza spirituale che trasmette al fruitore/osservatore umano della natura, è dotato intrinsecamente, dalla evoluzione, di una propria forza, sia nella corsa che nel salto, acquisita con arti, in particolare i posteriori, conformati a questa finalità. Può infatti saltare barriere di 2 metri di altezza e anche 7/8 di lunghezza; ma, essendo uno “spirito libero” mal sopporta le recinzioni (che sono una esigenza prettamente umana), e gli spazi angusti ed una volta entrato in recinti è frequente che non riesca ad uscirne od individuare varchi utili; in questi casi gli Operatori delle Polizie provinciali, dei Carabinieri Forestali, il Personale dei Centri di recupero animali selvatici e le Guardie volontarie, li aiutano a riguadagnare il territorio largo. L’espansione numerica della specie che ha portato alla abbondanza odierna impone alle Autorità ed agli Enti di gestione il massimo impegno per trovare una convivenza possibile ed ogni percorso preventivo che tenda a mitigare gli impatti del capriolo con le coltivazioni agricole e con il traffico veicolare. In questa direzione l’evoluzione delle tecnologie (si stanno sperimentando sensori di rilevamento della fauna in avvicinamento alla rete stradale), dovrebbe esserci di buon ausilio, creando giuste soluzioni tra barriere e dissuasori che mettano il più possibile in sicurezza le attività e gli spostamenti degli umani, rispettando contestualmente le esigenze dei caprioli di percorrere “corridoi ecologici” utili alla loro conservazione. Convivere con i caprioli e più in generale con la fauna selvatica utilizzando gli strumenti del progresso e della ricerca per assicurarsi i benefici della biodiversità e contenere accettabilmente i danni alle attività dell’uomo, sarà l’obiettivo sfidante del prossimo futuro e il costrutto contribuirà a realizzare quell’hegeliano spirito del mondo (weltgeist) che si incarna, di volta in volta, nel Popolo che in un certo periodo è all’avanguardia.

Ispettore Polizia locale della Città metropolitana di Bologna; Master in Amministrazione e Gestione della Fauna Selvatica presso l'Università Cà Foscari di Venezia