Agnello gourmet
Intervista a tre grandi chef di Marche, Umbria e Toscana, che interpretano la carne di agnello con creatività e straordinaria complessità tecnica.

Intervista a tre grandi chef di Marche, Umbria e Toscana, che interpretano la carne di agnello con creatività e straordinaria complessità tecnica.
Secondo i linguisti romantici, scrive in Mon Dictionnaire de Cuisine Alexandre Dumas, l’agnello deve il suo nome al lemma latino agnoscere, perché fin da piccolissimo riconosce la madre e inizia a seguirla belando sulle zampette traballanti. Principe indiscusso della tavola mediorientale, già apprezzato nei banchetti dell’antica Grecia, è una delle poche carni ancora stagionali: raggiunge infatti il massimo della bontà in primavera, quando la sua transumanza gastronomica approda in tavola, dopo qualche mese di latte e pascolo. Pesa in questo la religione, con la simbologia pasquale del sacrificio, ma anche la stagionalità degli accoppiamenti fra ovini, che in base ai cicli naturali iniziano ai primi freddi.
DANIELE AURICCHIO
A capo del ristorante Radici del Resort Borgo La Chiaracia, vicino Orvieto, Daniele Auricchio è un giovane chef campano, allievo di Sergio Mei, Andrea Aprea, Raffaele Lenzi e Martin Berasategui. A Castel Giorgio è arrivato tre anni fa in veste di secondo ed ha poi scalato la brigata con la sua idea di cucina avanzata e personale, oltre gli steccati delle rivisitazioni. “Oggi gli chef viaggiano molto, riportando a casa stimoli nuovi, che possono corrispondere a tecniche o ingredienti. Un altro caposaldo del mio stile è l’utilizzo della materia prima intera, a scarto zero, che alimenta anche la creatività. Si tratta perlopiù di prodotti del territorio, attinti da piccoli artigiani di eccellenza, con i quali spesso prima di trasferirmi avevo poca confidenza e che ho studiato in loco. Compreso l’agnello, che in Italia è ancora poco utilizzato, ma personalmente adoro. Se al ristorante trovo una bella costoletta, la ordino sempre. Nel mio percorso non posso dimenticare lo stracotto di agnello alla parmigiana che Nino di Costanzo serviva al cucchiaio, spettacolare; le costolette a scottadito di Sergio Mei, semplici ma di gusto, e un piatto che un collega al Four Seasons preparò per il personale. Era siciliano, la moglie libanese e aveva tirato fuori una ricetta strepitosa con albicocche e yogurt in crosta di pane carasau, che da Mei non poteva mai mancare. Si trattava generalmente di grandi esemplari, mentre quelli di qui sono allevati allo stato brado, risultano più piccoli e hanno una carne tenace, con molto muscolo e molto grasso, che conferisce gusto. Tanto che è stato necessario ricalibrare le cotture. Anche in questo caso cerco di usare l’animale intero. Acquisto dagli allevamenti esemplari che pesano 15 o 16 chili, non da latte, perché mancherebbe la giusta maturazione. Mentre io ricerco lo sviluppo del gusto tipico, fino a un sospetto di stallatico. Gestendo anche il ristorante tradizionale Pagoda, sempre all’interno del resort, con le parti che non impiego da Radici preparo un ragù o un buglione, tipico ‘spezzatino’ umbro. Il resto finisce in una ricetta che mi porto dietro quasi dal principio. A me piace cambiare, perché dopo un po’ i piatti sembrano meno buoni, anche se non è vero. In questo caso tuttavia faccio un’eccezione. Prendo tutta la schiena, la lavoro e la passo in salamoia, per poi salarla meno ed esaltare il suo gusto, infine la lascio asciugare per quattro o cinque giorni in cella, in modo da rendere più croccante possibile la pelle. Cuocio il filetto sottovuoto e poi direttamente in brace, in modo da centrare il gusto pieno della tradizione e ottenere una bella crosta croccante al Kamado, alimentato con carbone e legna del Borgo. Dalle interiora ricavo una classica coratella, il ragù bianco umbro, che uso per farcire un paninetto sulla falsariga del gatah, dolce mediorientale morbido e acidulo ottenuto con latte e yogurt, in questo caso di pecora. Mentre con le ossa e i ritagli preparo un garum alla camomilla, che per me presenta una maggiore intensità di gusto del classico fondo, abbinata a una testura più leggera. La composta di prugna alla paprica e le prugne confit ricordano il Medio Oriente, ed è una dolcezza che il sommelier ama riprendere piacevolmente con un calice di Sagrantino Passito, anche se potrebbe suonare inusuale”.
EDOARDO TILLI
Cresciuto a Podere Belvedere, casolare di famiglia nella zona del Chianti Rufina, completo di uliveto e campagna, Edoardo Tilli nel 2009 vi ha aperto un bed & breakfast, dove ha cucinato da solo per anni. Finché nel 2018, dopo la ristrutturazione, non ne ha ricavato un ristorante vero e proprio, che si è fatto notare per la cucina impavida e sperimentale. Completamente autodidatta, vi ha man mano affinato la sua identità culinaria, focalizzata sull’autoproduzione e sulla riflessione intorno al mondo delle carni, evolute attraverso rivoluzionari processi di frollatura. “Fin da bambino sono stato circondato dalle pecore. Prima i miei nonni e poi i miei genitori allevavano per autoconsumo un piccolo gregge, che poteva toccare i quaranta esemplari. Quindi l’agnello lo abbiamo sempre mangiato. C’erano invece tanti, anche fra i miei amici, che lo rifiutavano. Ma non il nostro. Perché le pecore andavano al pascolo e al massimo durante l’anno, grazie alle temperature miti, consumavano un po’ di fieno o di mais. Cosicché gli agnelli poppavano finché volevano quel latte profumato, senza sviluppare il vituperato gusto di stalla. Erano animali che venivano macellati un po’ più grandi del solito, intorno all’anno di vita, per cultura familiare. A mio nonno sacrificare carne tenera e immatura sarebbe sembrato uno sfregio. E anche nel mio caso è l’unico cucciolo che entra in cucina, per il resto prediligo le bestie vecchie. Le pecore di famiglia erano sarde, quindi piccole e da latte, mentre io ho scelto le bergamasche, più grandi e da carne. Con il covid, tuttavia, i predatori si sono moltiplicati a dismisura, cosicché le pecore non riescono a sopravvivere senza un cane da pastore.
Io stesso ho subito perdite ingenti, quindi ora tengo pochi esemplari all’interno di un recinto ristretto. Ogni tanto mando qualche agnello a macellare dal mio vicino, che alleva anche cani e mi fornisce le parti meno ambite dei suoi capi, quali teste e interiora. Constatando la propensione del mercato per bistecchine e filetti e le difficoltà nel collocare gli altri tagli, è stato naturale concepire piatti di recupero per animali che erano vissuti bene. La qualità del quinto quarto di agnello dipende da tanti fattori: la razza, l’età, l’alimentazione. Il sapore lattico caratteristico è ammaliante e si ritrova anche nel cervello e nei rognoni, avvolti nel grasso viscerale, che per me rappresenta il seme del latte che verrà. Non a caso un animale, quando allatta, dimagrisce: sono elementi che condividono le stesse note aromatiche. Da queste parti, però, nessuno li mangia più, sono tradizioni estinte. Eppure, quando l’agnello è grande, un bel rognone ricoperto di grasso e passato nel forno molto alto, scaloppato al sangue e condito con sale e pepe ti fa chiudere gli occhi. In casa si usava e per me era una festa. Al ristorante ne servo una ricetta diversa. Ci sono il rognone marinato al vino rosso e affumicato, la passata di albicocche tipo salsa di pomodoro, aromatica, dolce e acidula, il cervello brûlé, flambato con lo zucchero in modo da formare una crosticina, e la polvere di fegato, cuore e polmoni, marinati in sale e zucchero e fatti essiccare sotto la cappa del camino. Un po’ un jolly, fra l’antipasto, l’intermezzo e il predessert. Gli occhi e le lingue li metto comunque da parte. Dai primi ricavo uno spiedino nel menù degustazione; ma recentemente ho provato a estrarre il cristallino, che è gelatinoso, e condirlo con sale e limone: sembra un’ostrica. Mentre dalle lingue di agnello e di pecora elaboro una specie di kebab. La mia compagna Klodiana è albanese e da quelle parti l’agnello è re, ma lo preparano stracotto allo spiedo, morbidissimo ma quasi senza arrostitura”.
ERRICO RECANATI
Fra i più grandi interpreti della carne in Italia c’è Errico Recanati, chef che ha preso in mano l’osteria di famiglia fondata dalla nonna Andreina, con il suo celebre camino, e ne ha tratto un fine dining sperimentale, incentrato sul concetto brace. Oggi è il Bittor Arginzoniz italiano, capace di virtuosismi e prodezze mentre avanza sui carboni ardenti, in equilibrio fra matericità e avanguardia. “L’agnello per me rappresenta una memoria d’infanzia. Mi piace tenerlo in menù perché racconta le montagne e gli altopiani sopra la mia terra. Mi ricorda anche mia nonna Andreina, che non faceva mai mancare l’agnello alla brace. Si trattava di uno scottadito classico, condito semplicemente con aglio, rosmarino, sale e pepe. Usiamo animali interi provenienti da un allevamento vicino, ubicato a San Ginesio. Appartengono alla razza sopravissana, che per me è una delle migliori, anche se rischia quasi l’estinzione. Alta e grande, presenta un muso e degli arti allungati. Mentre sotto il profilo organolettico, crescendo allo stato non più brado, come un tempo, ma semibrado nei pascoli degli altopiani sopra Visso, cui deve il suo nome, profuma di erba, di montagna, di natura. Di solito gli ovini sono sempre un po’ forti, invece crescendo così mancano certi sentori. Io ho bisogno per le mie cotture di esemplari di una certa stazza, non sotto i 40 chili, che abbiano una buona struttura. Fondamentalmente serviamo due ricette. La prima è uno spiedino composto di tutte le frattaglie insieme a cosce e spalle, che vengono maturate una settimana in cella, ricoperte da lardo aromatizzato con rosmarino, alloro e salvia, poi fatte riposare vicino alla brace. Restano al caldo per un’oretta, poi tornano in cella e fanno avanti e indietro per una settimana. Una tecnica di frollatura che applico a tutte le carni e anche alle verdure, da me ideata per rilassare e ammorbidire le fibre. L’altra ricetta, più classica, figura ai banchetti o per Natale: sempre il coscio, ma aperto e steccato di lardo aromatizzato, poi cotto pian piano allo spiedo, col grasso che si scioglie, e servito con verdure sotto la cenere. Ma come anticipato, usiamo tutto l’animale. Dal cuore ricaviamo una bottarga da grattugiare servita con lo scampo; dalla milza una polvere che ha sentori di fungo secco, sparsa su una cappella alla brace; dalle budelline ben pulite un involtino tipo gnummareddi pugliesi, ripieno di fegato, milza e rognoncino, che accompagniamo a un’ostrica con foglia d’ostrica ed estratto d’alloro; mentre il cervello viene fritto in una pastella e accompagnato da pesca, frutto della passione, ricci e salsa di scamorza affumicata alla brace. Io però ho un debole per tutti gli ovini. Adesso stiamo utilizzando con soddisfazione l’ariete, che secondo me ha una carne ancora più pura e profumata, con un grasso e una struttura completamente diversi; per non parlare della pecora, che per me è top per tessitura, succulenza e aromaticità, agli antipodi del concetto di animale allevato in batteria”.