Pan di stelle
È il pane, da millenni a questa parte, il cibo universale che identifica e fonda l’umanità, almeno ad Occidente.
È il pane, da millenni a questa parte, il cibo universale che identifica e fonda l’umanità, almeno ad Occidente.
Quando Ulisse nell’Odissea incontra il ciclope Polifemo, lo descrive come un gigantesco mostro, ben diverso dall’uomo “mangiatore di pane”. Dizione che era già comparsa per contrasto al momento di esplorare con i compagni il paese dei lotofagi, mangiatori di loto condannati all’oblio. È il pane, da millenni a questa parte, il cibo universale che identifica e fonda l’umanità, almeno ad Occidente. Ed è sempre il pane a definire anche la grande ristorazione, dove il suo ruolo è lievitato sempre più, fino a diventare grazie alla geniale intuizione di Niko Romito, poi mutuata da tanti, una portata perfettamente autosufficiente. Ecco tre grandi Chef dell’Italia centrale, tre locali “stellati”, dove il pane siede al centro del tavolo in tutti i sensi.
Valeria Piccini del ristorante Da Caino a Montemerano è la grande dame della cucina italiana: solo lei in Italia detiene più di una stella, per la precisione dal 1999. Totalmente autodidatta, porta nel piatto la struggente elegia del mondo contadino maremmano, trasfigurato dal cannocchiale della curiosità e della conoscenza. “Il pane della Maremma è sciapo e viene preparato con la farina di grano tenero. Con quello sono cresciuta ed è sempre stato molto apprezzato da noi del posto, mentre chi viene da fuori spesso cerca il pane salato. A volte vedo i ragazzi che lavorano da me, salarsi la loro fetta. A casa mia si comprava, ma quando ero ragazza alle pendici dell’Amiata, c’erano ancora famiglie, come gli zii di mio marito Maurizio, che lo facevano in casa col forno a legna. Ed era buonissimo, la mollica risultava più umida, ma che sapore… Ce lo portavamo via e per diversi giorni lo mangiavamo così, senza niente, perché si faceva due volte a settimana, ma poi durava tantissimo. Quando poi sono entrata da Caino, mi sono subito dilettata con i panini aromatizzati alla pancetta, alla Mortadella, al pomodoro, con i peperoni… Poi ho capito che durante il pasto potevano alterare il gusto delle pietanze e nei primi anni zero sono tornata a un pane più naturale. Questo ha significato cambiare lavorazione e materie prime. Per esempio, usiamo un lievito madre, portato da un ragazzo in stage che era stato da Bonci”.
Nato in Colombia, Roy Caceres si è innamorato della cucina grazie agli insegnamenti del nonno di origini siriane. Trasferitosi in Italia con la madre, si è quindi formato presso il Pellicano, la Locanda Solarola e Pipero ad Albano Laziale. Nel 2010 ha iniziato a esprimere la sua elegante cucina di contaminazioni al Metamorfosi di Roma, dove ha conquistato la stella Michelin, che oggi brilla anche su Orma. “Ricordo che in Colombia si mangiava un pane di impronta francese: la baguette, una specie di galletta, talvolta un pane un po’ sfogliato di nome rojito. L’impasto era ricco, spesso conteneva uova e venivano aggiunti formaggi e affettati in cottura. Ma non era di grande qualità, perché a tavola il vero farinaceo era l’arepa, una sorta di piadina di mais. Come in Messico, dove pure ho vissuto, il pane era europeo, ma il carboidrato principe restava la tortilla. Quindi ho imparato a fare il pane in Italia, prima a Bologna, poi con John Regefalk, mio sous-chef svedese al Metamorfosi, che era appassionato di panificazione e mi ha contagiato. Avevamo una persona che si occupava solo di questo e usavamo materie prime di alta qualità, prima Mulino Marino, poi Molini del Ponte, che ci davano più emozioni. Perché il pane ha pochi ingredienti, quindi devono essere tutti eccellenti. Preparavamo una pagnotta al licoli a base di tre diversi grani antichi siciliani, che passavamo nei semi e cuocevamo un’ora prima del servizio. Poi c’era un pane casereccio da taglio di farina tumminia, nella cui preparazione sfruttavamo una tecnica orientale, approntando un gel di acqua calda e farina di grano saraceno, per una maggiore umidità e complessità di gusto. Veniva anche leggermente affumicato, per evocare il forno a legna che non avevamo. Un altro pane per il fine pasto era composto di grano saraceno e farina integrale, impastati col succo di pera e pere disidratate e reidratate nel loro stesso succo, più gherigli di noci e un passaggio nella crusca. E ancora la ciabatta profumata alla scorza di arancia e finocchietto. Da Orma abbiamo deciso di semplificare l’offerta, per evitare il sovraccarico di carboidrati, che penalizza l’appetito. Quindi abbiamo tenuto la pagnotta iniziale, che serviamo come portata dopo gli snack e il primo passaggio allo chef table, non più con l’olio testurizzato, ma con un kaymak, latticino di origine turca a base di burro e panna, che variamo con mascarpone e miso bianco. Segue solo un altro pane, che ricorda l’arepa: una focaccia che contiene tre tipi di mais. Nell’impasto di farina di grano si inseriscono chicchi di mais bianco colombiano cotto e gel di farina di mais nixtamalizzato, ovvero trattato con l’idrossido di calcio come usavano gli Aztechi, in modo da dissolvere la buccia, favorire la digeribilità e fare evolvere il gusto; più il fioretto di polenta in superficie per il croccante, prima della cottura nelle foglie di mais. Da gennaio però ripescheremo il pane con le pere, da donare agli ospiti per la colazione del giorno dopo con una crema di arequipe, il dulce de leche colombiano. Sono sincero: di pane non ce ne avanza molto. Ma proprio adesso stiamo facendo test per inocularlo di koji, in modo da ottenere una pasta che sa quasi di formaggio, sapida e umami-driven”.
Fra i giovani interpreti più brillanti della nuova cucina umbra, Andrea Impero è nato in Ciociaria e si è formato con Alfonso Caputo, prima di volare a Mosca, dove ha condotto un lussuoso locale polifunzionale completo di bakery. Oggi officia nel resort Borgobrufa, alle porte di Perugia, dove ha ottenuto la stella presso il ristorante Elementi. “Ricordo che quando ero piccolo mia nonna Annamaria faceva il pane nel forno comunale di Ferentino, che poi ha chiuso. Impastavamo in casa, rinfrescando con il lievito madre che tenevamo in frigorifero, e due volte a settimana ci recavamo a infornare. Le massaie posavano sulla testa, sopra una ciambella di tessuto, una spianatoia detta scifa con grandi pagnotte lievitate, avanzando in processione. Erano salate e di grandi pezzature, intorno ai due chili, composte di farina non troppo abburattata e patata schiacciate. Da Elementi ho voluto proporre un pane molto simile, impastato sempre con le patate e la farina tipo 1, più poca semola, ma a forma di baguette. Viene servito solo nel percorso Ispirazione in accompagnamento a ‘Non racconto bufale’, piatto che prevede una copiosa scarpetta. In questo campo sono quasi autodidatta, tranne un passaggio di sei mesi al forno Pizzoni di Foligno, dove ho fatto anche le notti. Poi al Maritozzo di Mosca al piano terra avevamo un forno all’italiana con grandi lievitati e pani di diverse regioni italiane, in tutto una ventila di tipologie. Lì ho messo a punto le tecniche, cercando di alzare l’asticella verso una panificazione più evoluta. Cosicché quando sono arrivato a Burgobrufa nel 2019, la prima cosa che ho chiesto ristrutturando la cucina è stato un piccolo laboratorio con forno in pietra refrattaria e celle di lievitazione. Nel ristorante Elementi serviamo anche il pane sciapo a lunghissima lievitazione da grani umbri Verna e Gentil rosso, a fette nell’introduzione; poi arrivano lungo il percorso il grissino sfogliato e il tarallo pugliese, chiamato calzone, con uvetta e alici. Il pane che ci sta dando più soddisfazione, però, è la ciabattina impastata con resina di pino, servita con il piatto ‘Cogliere’ a base di erbe spontanee, di cui riprende il balsamico. È una tipologia che amo, per la crosta croccante su una mollica alveolatissima, quasi vuota, grazie al 110% di idratazione e a una tecnica messa a punto nell’arco di mesi. Durante il pasto arriva inoltre una focaccina con il nostro pomodoro romanello, extravergine da oliva itrana e origano dei monti Alburni. Per finire c’è un pane autofermentato, ottenuto da frutta fresca di stagione fermentata con sale e zucchero durante diversi giorni, unita a farina integrale da grani misti, frutta secca e semi vari, servito con il carrello dei formaggi. Con gli avanzi ci dilettiamo e avendo due ristoranti riusciamo a non buttare via niente. Al Quattro sensi ho messo in carta il pancotto con cipolla di Cannara ed erbe aromatiche, servito con la tartare. Oppure prepariamo polpettine di pane ammollato nel latte, con uova, prezzemolo e ritagli di formaggio grattugiato per l’aperitivo. Utilizziamo perfino le briciole che si formano al momento del taglio, miscelate alle creste di galletto essiccate per la panatura dei nuggets”.