Castagne secche e altri detti dal sapore letterario
Alla scoperta del legame tra il frutto autunnale e la narrazione passata
Presente sulla Terra almeno da 10 milioni di anni, il castagno e i suoi frutti sono ormai parte del nostro retaggio culturale: basti pensare alle varie espressioni idiomatiche e metaforiche in cui compaiono la castagna e il marrone, come la celeberrima «prendere in castagna» intesa come «cogliere in fallo» o «togliere le castagne dal fuoco» che sta a significare «darsi pena o esporsi a un rischio per solo profitto d’altri». Se la prima potrebbe essere un calco sul sinonimo «prendere in marrone», la seconda è tratta dalla favola di Jean de la Fontaine La scimmia e il gatto e con «togliere le castagne dal fuoco» sottintende «con la zampa del gatto». Nella fiaba, infatti, una scimmia e un gatto decidono di mangiarsi delle castagne arrosto ma, quando arriva il momento di toglierle dal fuoco, la scimmia, per non scottarsi, convince a compiere l’azione pericolosa il compagno, che alla fine rimane a bocca asciutta. La scena è rievocata anche da Salvator Rosa e l’espressione ritorna anche nei romanzi siciliani veristi, come ne I Vicerè di Federico de Roberto, ne Il Marchese di Roccaverdina di Luigi Capuana e ne I Malavoglia di Verga. Carlo Goldoni, ne Gli amori di Zelinda e Lindoro, trasforma la zampa del gatto nella «mano altrui»: appassionato di castagne, il drammaturgo usa anche l’espressione «castagne secche» per indicare cose di poco o di nessun conto, specie in un esilarante battibecco tra il Don Marzio de La bottega del caffè e le donne che egli tenta di sedurre offrendo loro delle castagne.
Sempre in questa accezione e sempre al centro di un litigio, le castagne comparivano già nelle Rime trecentesche di Antonio Pucci e nel poema eroico di Alessandro Tassoni, come ironico epiteto del guerriero Irneo Montecuccoli, «giovane disdegnoso e furibondo, e di lingua e di cor pronto e di mano; a carte e a dadi avria giucato il mondo, e bestemmiava Dio com’un marrano: buon compagno nel resto e senza pecche, distruggitor de le castagne secche». Così ritornano anche ne Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile e nella Priapea di Niccolò Franco. Non manca nemmeno la variante secondo cui «pulire le castagne» equivale a un’azione inutile o di poco conto.
Molti autori riprendono poi l’espressione tristemente misogina secondo cui «la donna è come la castagna, bella di fuori e dentro la magagna»: ne è un esempio Angelo Poliziano che, snervato da una donna volubile, scrive: «Una certa saltanseccia, fatta come la castagna, c’ha ben bella la corteccia, ma l’ha drento la magagna, fe’ insaccarmi nella ragna con suo ghigni e frascherie». Dello stesso avviso è il poeta dialettale Giuseppe Gioachino Belli, che declina il topos persino in chiave antipapale: «Ste facciacce che pporteno er trireggno/S´assomijjeno tutte a le castaggne:/Bbelle de fora, eppoi, pe ddio de leggno,/Muffe de drento e ppiene de magaggne.»
Anche i marroni, sempre col significato di errori, vengono citati prima da Goldoni e poi da Manzoni il quale, prima nel Fermo e Lucia e poi nei Promessi Sposi del 1827 li nomina diverse volte – «Dite pure che son io che ho fatto un marrone, per la troppa pressa, per troppo cuore: gettate tutta la colpa addosso a me» dice per esempio don Abbondio a Renzo – anche se poi decide di eliminarli nella redazione definitiva del romanzo, forse ritenendole espressioni fin troppo colorite.