Piccione, feticcio gourmet
Se c’è una proteina che da tempo sorvola in alta quota la cucina italiana, è sicuramente il piccione: familiare soprattutto agli abitanti del centro Italia, che tuttavia lo consumano ben cotto e spesso farcito, oggi
Se c’è una proteina che da tempo sorvola in alta quota la cucina italiana, è sicuramente il piccione: familiare soprattutto agli abitanti del centro Italia, che tuttavia lo consumano ben cotto e spesso farcito, oggi è generalmente approntato secondo la scuola francese.
Come insegna Gualtiero Marchesi in Oltre il Fornello, i petti devono essere al sangue e le cosce, dalle masse muscolari più compatte, ben cotte a parte; anche in carcassa, per una maggiore succulenza e il massimo del gusto, adagiato all’uopo sul fianco; spesso accompagnato dal suo fondo e da un’elaborazione delle saporite rigaglie. Qualcuno, tuttavia, ha provato a smarcarsi, per esempio Errico Recanati, che prepara il piccione alla brace e lo serve ben cotto, nel tentativo di riscattare la ricetta tipica. Resta ineludibile punto di riferimento, nella memoria dei gourmet esperti, il piccione di Fulvio Pierangelini, protagonista di un evocativo “Piccione alle spezie d’Oriente, souvenir di un viaggio mai fatto”.
“Si tratta di un vecchio piatto risalente a 30 anni fa, che avevo immaginato quando non prendevo l’aereo. Oggi non avrebbe senso. Io sognavo da sempre di visitare la Persia, la Siria, il Libano. Quindi ho immaginato questi profumi e il loro gioco. Avevo trovato un sacco di spezie divertenti, un mio ingrediente feticcio, che adoperavo in modo spontaneo e naturale, come se le conoscessi da sempre. Io sognavo di andare ad Aleppo, che oggi hanno distrutto. Ero affascinato dal tempietto pagano di Baalbek, perché adoravo l’idea di una cosa completamente inutile, costruita dai Romani quando ormai si stava affermando il cristianesimo. In sintonia col mio modo di immaginare la cucina all’epoca, fuori dalla realtà. Usavo una varietà infinita di spezie con cui cuocevo il piccione, poi c’erano la salsa e il brodo di arancia e spezie, una crema di zucchine e banane, foie gras e polvere di datteri. Raccontavo il modo in cui immaginavo il mio Oriente, senza prendere l’aereo. Una delle mie idee per qualche tempo è stata aprire una guinguette sulla spiaggia in Libano. Dopo anni sono riuscito ad andare, e ricordo che l’emozione del sogno si è rivelata superiore a quella del viaggio, che pure mi è piaciuto da morire. Ma il tempietto non l’ho visto, e Aleppo me l’hanno distrutta. C’era un’emozione oltre il gioco gastronomico, che colpiva chi assaggiava. Ed era uno dei pochissimi piatti che non giocasse sul ricordo. Questo era contro tutto, non c’era nulla di conosciuto. Mentre il purè o la passatina stimolavano una memoria, questo no. Era un ricordo mio di una cosa non vissuta. E se ancora c’è chi ne parla, vuol dire che qualcosa raccontava. Poi ha avuto successo anche un altro piccione, più classico, servito per la prima volta in cinque portate. E pensare che io non mangio piccione, per una forma di pudore. Ma noi ci conosciamo, ci rispettiamo e io so tutto di lui. Una volta ho affondato il dito in una salsa e mi sono detto: è buonissimo”.
Altro piccione impareggiabile è quello della grande dame della cucina toscana, Valeria Piccini, unica chef, anzi “shef”, che oggi detenga più di una stella in Italia. Nei suoi 40 anni di cucina lo ha sottoposto a innumerevoli interpretazioni.
“Potremmo dedicare un libro intero solo alle ricette di piccione, perché ogni menù ha il suo. L’ultimo creato in collaborazione col sous-chef Massimo Deinnocenti, che mi ha particolarmente appassionato, è quello con la pelle molto croccante, sul modello della Peking Duck, assaggiata durante un viaggio in Cina. Abbiamo studiato come replicare la ricetta su una carne meno cotta, dalla pelle più sottile e meno grassa, e siamo riusciti ad avvicinarci, mantenendo la cottura rossa. C’è una grande lavorazione dietro, il volatile viene fatto asciugare in cella per qualche giorno, poi glassato, cotto in forno e fritto con l’olio versato sopra. Una questione millimetrica. Per me è un sapore indescrivibile, insieme ai crostini delle interiora e al fondo delle carcasse, più una guarnizione di frutta stagionale, che sia rabarbaro o pesca. Ora cipolla al sesamo e mora fermentata”.
Non ne è meno ossessionato Gaetano Trovato, che dagli anni ’80 ne lavora le carni. Protagonista di risotti e paste fresche, è l’immancabile corsa conclusiva della degustazione, impiattata con sensibilità squisita in modo sempre diverso. Oggi segue i dettami dello scarto zero, con la valorizzazione di ogni brano di carne e guarnizioni stagionali, dalle more di rovo alle ciliegie.
“La mia riflessione ha preso le mosse dal rapporto con un allevatore toscano, che serviva anche Valeria e Fulvio: un prodotto italiano, mentre il piccione nasce in Francia. Per quanto riguarda la preparazione, l’evoluzione è stata nella cottura rosa e in carcassa, per mantenere la forma del petto. Carcassa che poi in concentrazione del gusto naturale, senza aggiunta di sale o pepe, va a esaltare i petti. Nella mia carriera avrò fatto una quarantina di ricette di piccione: il mio è un amore viscerale. Lo lavoro a ogni stagione e probabilmente in autunno sarà protagonista di un menu dedicato, con un paio di antipasti, un paio di primi e un secondo. Una verticale senza scarti. Noi cuochi lo amiamo perché è un ingrediente su cui non esiste una cultura casalinga ed è complesso da lavorare, quindi si mangia al ristorante, come il pesce. E da Arnolfo va in cottura appena arriva la comanda, quindi c’è fragranza”.