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Un piccione è per sempre

Non è un animale comune, benché sia ovunque. Te lo ritrovi, immancabile, al centro di ogni città e paese, come il Duomo o la chiesa. Lo guardi sempre con sospetto, come qualcosa di impuro e

Non è un animale comune, benché sia ovunque. Te lo ritrovi, immancabile, al centro di ogni città e paese, come il Duomo o la chiesa. Lo guardi sempre con sospetto, come qualcosa di impuro e il solo pensiero di mangiarsi un piccione di Piazza San Marco fa venire i brividi.
Eppure, ecco l’altra faccia della medaglia, i piccioni sono anche quei volatili pasciuti e succulenti, allevati con amore, che finiscono sulle nostre tavole, soprattutto qui in Umbria.
Certo, se personalmente allevassi dei piccioni, ovviamente li chiamerei per nome e morirebbero di vecchiaia, felici. Ma di solito li compro già belli e puliti, e li cucino secondo tradizione: gastronomicamente, è l’aspetto più inquietante della mia distorta e disonesta mentalità bipolare.

Tornando sul pianeta terra, il piccione è soprattutto la cartina di tornasole di uno chef: è una materia potenzialmente nelle mani di chiunque e una tabula rasa su cui scrivere il proprio talento, o l’epitaffio del proprio fallimento. Non è affatto facile cucinare un piccione, se parliamo di “alta cucina”. Tutti i grandi chef hanno, prima o poi, tirato fuori la loro versione.
Il petto e le cosce non parlano la stessa lingua, vanno considerati due mondi paralleli e di conseguenza la bravura di un cuoco si gioca nel rendere, in cottura, entrambi perfetti. Non tutti ci riescono, ho assistito negli anni a figuracce memorabili. Il petto, in particolare, è da sempre causa di imprecazioni colorite da parte di tutti quei cuochi che in cucina, tra urla e padelle fumanti, si vedono ritornare un piccione appena preparato accompagnato dalla famigerata frase: “Chef, il cliente dice che è crudo, non lo vuole”.

Il petto di piccione va servito al sangue. Punto. Il che non significa che deve grondare sangue, anzi.
È tutto lì, nella capacità di un cuoco di non denigrare una carne così prelibata trasformandola in un pezzo di polistirolo, senza dare l’idea di essere un sadico torturatore che ha trucidato il pennuto qualche minuto prima. Non è facile il loro lavoro, non li invidio e sono grato a tutti i grandi cuochi che ho conosciuto nella mia vita perché mi hanno insegnato tanto.

Il mio primo piccione gourmet lo assaggiai, parecchi decenni fa, in un ristorante straordinario. Rimasi allibito dalla morbidezza delle carni, dalla perfezione degli abbinamenti, da quell’equilibrio mirabile tra dolcezza e acidità. Per la verità rimasi impressionato anche dal conto finale, indimenticabile.
Nonostante questo, decisi che il piccione sarebbe stato il mio piatto, la mia scelta in ogni ristorante che l’avesse in menù, il mio metro di giudizio valutativo, qualunque prezzo avesse.

Sono quindi “sposato” professionalmente al piccione, non l’ho mai tradito. D’altronde, come dice Woody Allen in Manhattan (1979):

Io sono all’antica, io non credo alle relazioni extraconiugali: credo che ci si dovrebbe accoppiare a vita, come i piccioni o i cattolici.