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Un raffinato baccalà

Da qualche anno il baccalà è fra gli ingredienti più inflazionati della ristorazione fine dining, che sia proposto mantecato, stufato, fritto, grigliato o addirittura crudo. Un autentico tormentone, intervenuto peraltro a sanare un’amnesia di lunga

Da qualche anno il baccalà è fra gli ingredienti più inflazionati della ristorazione fine dining, che sia proposto mantecato, stufato, fritto, grigliato o addirittura crudo. Un autentico tormentone, intervenuto peraltro a sanare un’amnesia di lunga data, visto che il merluzzo skrei, conservato sotto sale oppure essiccato al vento freddo delle Lofoten, è da secoli un alimento ben presente nella gastronomia italiana, da nord a sud, praticamente senza eccezioni.

Per quanto possa suonare paradossale, in una nazione che conta quasi 8000 chilometri di coste, l’impiego è popolare sin dal XV secolo, quando il navigatore Pietro Querini fece naufragio sulle sponde dell’arcipelago norvegese e vi scoprì un primo, nuovo mondo di sapori: quello dei grandi pesci del nord, duri come bastoni o prosciugati dal sale, di cui riportò un gran carico a Venezia, avviando il commercio. Il successo fu immediato, tanto come cibo per le traversate, che quale alimento di magro.

E di fatto lo stoccafisso (qui chiamato baccalà) trova il suo epicentro gastronomico in Veneto, mentre il baccalà vero e proprio, quello sotto sale, è entrato nella ristorazione più tardi, a partire dagli anni ’90, quando i cuochi hanno iniziato a volgere lo sguardo verso la Spagna, il Portogallo, i Paesi Baschi, che ne sono grandi consumatori e straordinari interpreti.

Dici “baccalà” e pensi a Massimiliano Alajmo: lo stoccafisso rappresenta da sempre un ingrediente feticcio per il fuoriclasse di Rubano, che tuttora segue fedelmente la ricetta del nonno cuoco. Per lui quel pesce che montando si trasforma in spuma allude a una misteriosa transustanziazione: momento in cui la cucina sfrega la sfera spirituale, ingrediente verso altre dimensioni. Ma non è l’unico chef veneto per cui il baccalà sia memoria,
per esempio c’è Alessandro Breda del Gellius di Oderzo:

“Nelle nostre case si mangia perlopiù lo stoccafisso, per me è un ricordo primordiale. Uno di quei sapori che ci si porta dietro dall’infanzia, senza fare troppa poesia. Quindi in ogni carta e in ogni stagione, c’è sempre. Durante la stagione dello skrei ne compro quantità importanti, per sfilettarlo e salarlo di persona. Mi dura 5 o 6 mesi. Per esempio, adesso servo due piatti: un riso mantecato con lo stoccafisso e gelato al cipollotto e un baccalà con pil-pil alla vicentina, a base di acciughe, cipolla e capperi, servito con il tamarindo. È molto apprezzato anche dagli ospiti di fuori, tanto che alcuni mi chiedono un menù tutto baccalà”.

Poi c’è la Peca dei fratelli Portinari:

“papà Serafino preparava nella gastronomia di famiglia un baccalà alla vicentina che era molto gettonato, arrivavano da Milano apposta per comprarlo”, ricorda Nicola. “Faceva dai 150 ai 200 chili ogni venerdì, per Pasqua anche di più. Quindi è un ingrediente cui siamo sempre stati molto affezionati. Qui alla Peca preparavamo piuttosto un tortino di baccalà con fonduta di Asiago, di cui ha scritto più volte Paolo Marchi. Ma lo stoccafisso lo usano in pochi perché è più difficile da trattare, se sbagli cottura diventa duro; piuttosto è inflazionato il baccalà”.

Fra i giovani Alessandro Dal Degan, che coltiva con passione le memorie collettive, non poteva che metterci le mani:

“la mia visione è quella del pesce di montagna, conservabile come le acciughe e le aringhe. Ed è un ingrediente che adoro, con mille sfaccettature e versatilissimo. Paradossalmente per me il sotto sale rende meglio crudo o appena scottato, per la struttura solida regalata dal sale, che la cottura rischierebbe di trasformare in gomma. Non posso non ricordare quando mi svegliavo la domenica o per il pranzo di Natale, dopo una settimana che girava la puzza per casa, e trovavo mia nonna Lidia che preparava il baccalà alla vicentina. Non ne ho mai trovato uno migliore. Nell’osteria in un modo o nell’altro c’è sempre, in diverse ricette, di solito alla vicentina senza nessuna variazione rispetto all’originale, ma con attenzione alla tecnica. Nel gourmet invece lo lavoriamo in modo completamente diverso, ma c’è molto spesso, dal mantecato al fritto, che è una droga. Generalmente all’inizio nell’aperitivo alla veneziana con i suoi cicchetti”.

Ma anche fuori regione i veneti se lo portano appresso, tanto si presta al trasporto.
Per esempio, Daniel Canzian, originario di Conegliano Veneto, ma di stanza a Milano:

“il signor Marchesi non lo preparava, ma nel 2008 insistette moltissimo affinché inserissi polenta e baccalà al Marchesino. E io che forse ero troppo giovane, non capivo. Invece era come sempre davanti a tutti. Parliamo di una parte importante del nostro patrimonio gastronomico, per quanto di matrice internazionale; non era un piatto povero, nemmeno nei prezzi, ma era popolare perché si manteneva bene, era trasportabile e nutriente. Ho portato avanti questa tradizione nel mio ristorante milanese: polenta e baccalà in varie interpretazioni, come il cannolo o i grissini farciti. La ricetta è quella di tutti: baccalà, olio, sale e pepe”.