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I danni dei daini e la caccia del re

La storia del pregiato mammifero tanto amato in passato

«Ma per i ricchi d’oggi non v’è piacere nel cenare, nessun gusto in un rombo, nessuno in un daino, e sembrano puzzare anche profumi e rose, se a sostenere le loro smisurate tavole non è un piede enorme d’avorio».

 

Con queste parole, il poeta Giovenale si prende gioco dei nuovi ricchi della Roma imperiale che hanno dimenticato i sobri costumi del tempo passato, quando a un vero romano bastavano cibi semplici, e rombi e daini erano comunque grosse prede riservate a pochi.
Il daino (in latino dama o damma) era insomma cacciagione pregiata, come il cervo. E del resto la salsa che il sofisticato gastronomo Apicio consiglia per il cervo è dichiaratamente adatta anche per il daino.
Cervi e daini condividono dunque un posto di rilievo nell’immaginario alimentare antico e sono prede ambite dai cacciatori di ogni tempo. A partire dal Medioevo, questi animali diventano sempre più prede esclusive dei sovrani europei e delle loro corti e assumono quel ruolo di animale da uccidere per dimostrare la forza del potere. Si assiste così alla formazione di riserve e bandite di caccia dove i monarchi e le loro corti potessero esercitare questa prerogativa. Quando il cervo, al primo posto in questa graduatoria simbolica degli ungulati, non poteva essere allevato facilmente, si preferiva il daino, altrettanto regale per grandezza, per andatura e per bellezza e potenza dei palchi.
Fu così che, nella Toscana granducale medicea, nel 1626 venne costituita un’enorme riserva di caccia, il Barco Reale, con una recinzione lunga una cinquantina di chilometri proprio allo scopo di allevare e avere sempre disponibili animali da cacciare; prima di tutto daini.
Tuttavia, le ingenti spese di manutenzione dei recinti e i continui risarcimenti per i danni arrecati dai daini ai raccolti e alle piante coltivate spinsero, un secolo e mezzo dopo, il Granduca Pietro Leopoldo a prevedere la riduzione dell’enorme recinto a una piccola riserva dove richiudere gli immancabili daini. Ma la nuova area si mostrava adatta a contenere meno della metà degli esemplari viventi nella grande tenuta (stimati in circa 150) e il costo per catturarli vivi sarebbe stato esorbitante. Anche l’ipotesi di una caccia di selezione riservata ai cacciatori di corte non piacque al sovrano che, con inattesa decisione, autorizzò i sudditi a uccidere liberamente i daini del Barco. Nel 1768 si consumò così quello che le cronache locali definirono un dainicidio, tanto radicale che l’anno successivo i poveri orfanelli del Pio Istituto San Filippo Neri di Firenze (i monellini) non poterono godere della consueta donazione di dieci daini che il Granduca inviava per allietare le loro mense.
Ma al di là della nota di cronaca locale, la decisione del Granduca ci colpisce perché va considerata nel più ampio scenario europeo che culminò con la Rivoluzione Francese. Fu infatti, quella del Granduca toscano, una concessione illuminata, una sorta di anteprima della abolizione dei privilegi esclusivi di caccia spettanti al re e ai nobili per diritto feudale. Oltralpe, l’Assemblea Nazionale di Parigi avrebbe abolito con la forza rivoluzionaria quei diritti solo trent’anni dopo, scatenando peraltro un’insurrezione inaudita: il popolo invase il parco di Versailles e massacrò la selvaggina del re, certamente daini compresi, visto che Luigi XVI aveva nella Venaria Reale una squadra appositamente destinata a quel genere di caccia.

Docente del Corso di Laurea Ecocal dell'Università degli Studi di Perugia