Nadia Toppino, la food blogger che si definisce ingegnere creativo
Intervista con l'autrice di "Storie di Cibo", in cui si raccontano storie di prodotti, di chef, di mani che lavorano cibi e vini.
Abbiamo incontrato Nadia Toppino, un passato da responsabile comunicazione internazionale in Eni G&P che le ha consentito di viaggiare per il mondo scoprendo e raccontando (a latere del lavoro tecnico) cibi, vini e produzioni, così come una passione per il cibo e tutto quello che lo circonda, che oggi l’hanno fatta affermare come food blogger con il suo Storie di Cibo, in cui si raccontano storie di prodotti, di chef, di mani che lavorano cibi e vini.
Autrice di 4 libri, Storie di cibo nelle terre di Expo, Storie di cibo dietro le sbarre, 52 ricette stellate in due lingue (italiano e spagnolo) e Storie di cibo in Basilicata, Nadia Toppino collabora come referente cibo-vino e ospitalità con tre magazine svizzeri dedicati al settore lusso (CelebreMagazine, Rinascimento Magazine e MonacoWoman).
Appassionata di tutto quello che è cibo regionale e riscoperta delle tradizioni, è girovaga per passione e mamma da pochi anni di un piccolo degustatore! Con lei abbiamo parlato di sostenibilità, una delle tematiche oggi più presenti nel panorama della ristorazione, tanto che la prestigiosa guida Michelin ha introdotto già dallo scorso anno l’ambita stella verde, dedicata agli chef più green.
Da food blogger che visita ogni anno centinaia di ristoranti, ritiene che l’elemento sostenibile possa a volte risultare una forzatura nella comunicazione della filosofia di cucina di uno chef?
La sostenibilità è un concetto molto più profondo di quello che di norma viene comunicato: include atteggiamenti verso fornitori e materie prime, verso energia e costi, anche verso dipendenti e verso i clienti stessi. Quindi è giusto comunicare la propria sostenibilità, ma con dettaglio sulle varie azioni e non evidenziando magari solo l’utilizzo dei prodotti dell’orto a chilometro zero, quando poi in menu ci sono per 12 mesi all’anno le fragole come frutta!
Lei scrive anche per testate di settore fuori dall’Italia e ciò le consente di avere anche un punto di vista diverso su determinati argomenti. Trova differenze tra l’approccio alla sostenibilità che hanno i nostri chef in Italia e quello che invece hanno i colleghi all’estero?
Non ho notato differenze a livello di nazionalità, è più un atteggiamento culturale personale. Forse un tempo l’attenzione ambientale era prerogativa dei paesi esteri, ora invece è una pratica diffusa anche qui. La differenza non si nota a livello di Paese, ma di persona.
La sostenibilità rischia di diventare una tendenza?
Può rischiare di essere una moda se, come ho detto prima si dà attenzione solo a cose superficiali. Tempo fa è stata la moda del chilometro zero, quindi l’orto interno, ora il green, ma la sostenibilità è un complesso di azioni, anche a livello umano, che guarda al futuro.
Oggi tanti chef si proclamano sostenibili. Da giornalista, cosa la spinge a scegliere di raccontare un progetto di sostenibilità in cucina piuttosto che un altro?
L’entusiasmo di chi lo racconta. La sostenibilità non deve essere un modulo di qualità da rispettare a punti, deve essere una sensazione reale, da cui poi allargarsi in altri campi: si può partire dal cibo e capire che deve essere sostenibile anche il rapporto con i collaboratori. Non sei sostenibile se usi gli ortaggi dell’orto di casa e poi non hai un rapporto sostenibile con i tuoi collaboratori, sottopagandoli o facendo fare loro 18 ore al giorno. Per me la sostenibilità globale non esiste: è questo che è difficile individuare e spesso chi racconta la sostenibilità non approfondisce, fermandosi all’apparenza.