Quanto è importante la cottura? In passato ne erano maestri
Una carne pregiata presente sui banchetti di un tempo
Gambe tozze e altezza al garrese che spesso non supera i 130 cm; femmine da 750 kg e maschi che arrivano alla tonnellata. Indossano una livrea di pelo raso occasionalmente rossa ma generalmente nera (Black, appunto). Il nome Aberdeen Angus nasce nel 1775, quando gli agricoltori scozzesi iniziarono a migliorare l’aspetto e la produttività del bestiame la cui presenza in loco sembra risalire ai tempi dei Romani.
Ora la denominazione rappresenta un marchio universalmente conosciuto, nel settore agricolo, per la facilità di cura e allevamento: questo animale (che non presenta corna) è forte, fertile, longevo e si adatta facilmente anche a climi difficili. I tori sono conosciuti per il loro buon carattere, docile, rilassato e calmo, che li rende semplici da gestire e allevare. Le vacche, di facile parto e di gestazione naturale, tendono a evitare le tensioni associate agli allevamenti bovini, che comunque non sono intensivi. Infatti, essendo un animale con una predisposizione a una muscolatura piuttosto sviluppata, è versato al pascolo.
Una delle caratteristiche che rende la carne di Black Angus tanto speciale è l’alimentazione di questi animali. Essa è incentrata, perlopiù, su fieno e grano. Circa due mesi prima della macellazione, le mucche vengono nutrite quasi esclusivamente con mais, al fine di esaltare il sapore dolciastro che rende le carni davvero inconfondibili. Oltre alle proprietà organolettiche, queste sono catalogabili tra quelle che contengono più proteine (circa l’80%, mentre il 20% è di grasso). Infatti la marezzatura (proprietà che indica la distribuzione appunto del grasso all’interno del tessuto muscolare) è particolarmente presente. Tale peculiarità, in cottura, rende la carne ancor più morbida e saporita. Tutta questa attenzione da parte degli allevatori nel rendere unica la qualità del loro prodotto non è assolutamente casuale. Si consideri che siamo nella patria del roastbeef, quella tipica pietanza della cucina tradizionale anglosassone diventata oramai un piatto internazionale pratico, veloce ma pure raffinato ed elegante, da portare a tavola in ogni occasione importante.
Non dimentichiamo neppure che, poco più di cinque secoli fa, Erasmo da Rotterdam (ospite ben gradito per più volte di Tommaso Moro), sorridendo raccontava delle qualità che varie nazioni attribuivano con orgoglio a sé stesse – di come i francesi fossero famosi per il loro savoir vivre e di quanto gli inglesi si arrogassero il gusto dei grandi banchetti a base di carne. L’eccellenza della cucina inglese era proverbiale già secoli prima di Erasmo, forse perché le punizioni impartite ai cuochi inesperti erano severissime, tanto che Edoardo I (1239-1307), in viaggio da Londra a York, fece giustiziare tutti i cuochi delle locande in cui aveva sostato soltanto perché gli avevano preparato piatti di carne che non lo avevano soddisfatto.
In tempi più recenti, nel XVII secolo, gli inglesi ricordavano con la nostalgia dei tempi che non tornano più i giovani «che giravano lo spiedo leccando il sugo che cadeva nella leccarda tanto da crescere, così, forti e valorosi cavalieri». La carne che si arrostiva nel Seicento era di bue, proprio quella considerata (ancor oggi) la carne per eccellenza, e ancora all’epoca veniva servita in tavola infilata nello spiedo, portata in bella evidenza dai servi, e l’ospite ne tagliava la sua porzione mangiandola con le mani, spesso senza piatto, adagiandola su fette di pane, proprio nel modo in cui ancor oggi si può vedere nelle iconografie e leggere nei testi medievali. Niente, allora come ora, può essere paragonato – in quella cultura gastronomica – a un buon pezzo di roastbeef (soprattutto di Black Angus) ben abbrustolito all’esterno e succoso e morbido all’interno.