Bartolomeo Passarotti o Passerotti (Bologna, 1529 – 1592) – il cognome è attestato in entrambe le varianti – tolto un breve, ma significativo periodo romano, passò la vita e svolse la sua l’attività quasi esclusivamente nella città natale, dove riuscì ad affermarsi come pittore di soggetti religiosi, ancora predominanti nel Cinquecento. Fu apprezzato però anche per soggetti profani, che raffigurano le attività e i mestieri esercitati dalle classi sociali più lontane dal potere e dalla cultura. La ricerca di nuovi soggetti, estranei alla sfera religiosa, era iniziata circa un secolo prima nelle Fiandre e in Olanda, paesi cristiani entrambi, in cui però la lontananza geografica dalla Chiesa Romana alleggeriva non poco il peso delle imposizioni delle autorità religiose in materia di pittura. Del resto già il Rinascimento italiano, con il suo voluto ritorno alle forme del pensiero del mondo greco e romano, aveva appreso come si potessero dipingere gli Dèi e le loro vicende, ma anche gli uomini visti nelle attività di tutti i giorni. All’epoca di Passarotti i quadri profani erano destinati alle case degli appassionati d’arte, luoghi in cui i dettami del clero, quanto ai temi da trattare, potevano benissimo essere disattesi senza conseguenze. Molti committenti gradivano dipinti che ritraessero la realtà concreta vista anche negli aspetti meno ufficiali e protocollari, a volte volgari e osceni. È il caso del committente, a tutt’oggi non identificato e molto probabilmente destinato a rimanere sconosciuto, che richiese a Passarotti una sorta di fotografia di due macellai ritratti in bottega dietro al banco. Il dipinto, dopo il transito in varie collezioni private, è approdato al museo romano che tuttora lo detiene. Il pittore ebbe un’intuizione felice: il fatto che i due uomini guardino verso l’osservatore ripropone l’atteggiamento di due venditori intenti a mostrare la loro mercanzia a un ipotetico cliente. Quello a destra dello spettatore regge un taglio di carne e sembra proprio vantarne la qualità; quello a sinistra è alle prese con la testa di un cinghiale: nelle macellerie del tempo approdavano le carni del bestiame d’allevamento, ma anche la cacciagione. Alle loro spalle una stanga di legno con numerosi uncini di ferro regge alcuni quarti di bove e altri tagli, divenendo anche un elemento di ampliamento dello spazio pittorico. L’ambientazione realistica mira a ricreare la vera atmosfera d’una macelleria del tempo. I due personaggi indossano gli abiti modesti e sgualciti tipici di chi pratica un lavoro pesante, evocato anche dalle braccia muscolose: una camicia molto ampia, come era in uso allora, in parte coperta da un corpetto senza maniche, per avere piena libertà nei movimenti. Da notare anche la caratterizzazione fisiognomica, che il pittore volutamente si guarda bene dal nobilitare. I volti dai lineamenti marcati e un po’ volgari, ma sorridenti e le occhiate ammiccanti sembrano alludere a un probabile significato nascosto della scena. Come spesso avveniva anche nelle nature morte con frutti e ortaggi, l’apparente neutralità degli oggetti nascondeva significati reconditi e spesso erotici. Del resto la carne era in gran parte consumata dalle classi abbienti, quelle che potevano concedersi una vita più libera e spensierata, meno attenta ai dettami delle autorità religiose, che negli anni Ottanta del Cinquecento, epoca alla quale va riferito il dipinto, dalla Controriforma erano stati resi molto severi. L’ambiguità del termine carne che indica il cibo, ma anche la corporeità, opposta allo spirito, faceva sì che le infrazioni nel campo del sesso venissero definiti peccati carnali.
In alto: Macelleria, Bartolomeo Passarotti, Palazzo Barberini, Galleria Nazionale d’Arte Antica, Roma.