La bresaola, il brasile e i Promessi Sposi
Una delle prime testimonianze del progresso
Se si indaga sul nome della bresaola, attestato dal XV secolo, si trovano diverse possibilità. Premesso che generalmente si riconosce che l’origine è incerta, il Consorzio di Tutela della Bresaola valtellinese pone al primo posto la derivazione dal germanico brisa o brasa/braza, cioè brace, più o meno aromatizzata, usata per affumicare la carne. Altra possibilità offerta è che la parola venga da brisa, nome col quale si indicava una ghiandola bovina particolarmente salata. Altri propongono una relazione con la svizzera briza, una ricotta condita con sale e pepe. Si ammette comunque che il sale (sal in latino) abbia a che fare con la formante della seconda parte della parola (saola/savola). Si è avanzata quindi l’ipotesi che quel bre iniziale sia spiegabile con il tema b(h)rent/b(h)ront che in molte lingue indoeuropee accomuna la denominazione dei cervidi, come anche nell’italiano (b)re-nna. La circostanza che proprio a questa specie animale si rivolsero le attenzioni dei primi cacciatori e poi allevatori montani aggiungerebbe valore all’ipotesi: il cervo era l’animale per eccellenza (anche da latte e da forza lavoro) e la sua carne sottoposta a salatura (sal) ha dato origine alla parola bre-saola che valeva insomma carne (di cervo) salata. L’affumicatura invocata per l’altra presunta origine da brace sarebbe difficilmente sostenibile perché la bresaola ha come caratteristica fondamentale la salatura e asciugatura e non l’affumicatura, che è solo occasionale. Questa ipotesi di una originaria bresaola di cervo non pare trovi grande eco, almeno in rete, probabilmente perché psicologicamente scomoda, rimandando a un animale simbolo del selvaggio e del libero che nella coscienza collettiva delle generazioni post Bambi è particolarmente difficile da immaginare a fette. Ma in realtà la bresaola di cervo (oggi allevato) continua a esistere e a essere reclamizzata come prodotto di nicchia. Eppure la coscienza collettiva potrebbe tornare serena se si alzasse lo sguardo dalle anguste valli alpine nostrane, terre di bresaola, e si estendesse al Massiccio del Jura, tra Francia e Svizzera, dove pure esiste la tradizione della carne salata e asciugata all’aria, affumicata e non. Si scopre così un parente strettissimo, persino nel nome: si chiama braisi, bresi o brezi, breuzil, breusil e altre forme documentate dal Glossario dei nomi dialettali della Svizzera romanza. Il brési e breusil che dir si voglia è molto simile alla bresaola, compreso il rosso che lo caratterizza.
Ed è proprio al colore che si fa risalire il nome. Prima della scoperta del Nuovo Mondo, la parola brasile – in latino tardo brasilium, braxiullum e simili – indicava un albero asiatico dal cui legno si ricavava una tintura rossa, utilizzata in campo tessile e scrittorio. Le nuove terre americane erano ricoperte di una gigantesca foresta di alberi molto simili a quelli già noti e subito i portoghesi ne iniziarono uno sfruttamento tanto redditizio quanto devastante in termini ecologici. L’importanza del legno di brasile fu così determinante che indusse a cambiare il nome di quelle terre, battezzate in origine Santa Cruz. Ma la bresaola è un prodotto delle terre di Renzo e Lucia che lavorano in una filanda dove il brasile sarà stato certamente usato per tingere di rosso (il cosiddetto falso cremisi) la seta.
Seguendo la suggestione del romanzo storico, ci piace insomma proporre che quel purpureo tocco di carne salata (di bue, cervo, maiale che fosse) e asciugata all’aria che da sempre si consumava lungo i terrestri rami del Lago di Como – Valtellina e Valchiavenna – prese il nome di bresaola proprio ispirandosi al rosso brasile della tradizione tintoria delle filande, già affermata al tempo dei Promessi sposi.