Mariano Pauselli, professore di Zootecnia speciale
Intervista con l'esperto.
L’Università ha mai portato avanti progetti specifici sulla chianina? Se sì, in cosa consistono?
I pochi finanziati sono ormai datati (anni Ottanta – Novanta); nello specifico, l’ultimo progetto di ricerca (2012) che ha coinvolto il gruppo di lavoro al quale appartengo ha riguardato l’effetto, sulle caratteristiche qualitative della carne, dell’impiego di seme di lino e di sansa di olive denocciolata nella dieta di soggetti in finissaggio. I risultati hanno evidenziato la possibilità di migliorare le caratteristiche chimico-nutrizionali della carne prodotta e, nel caso dell’impiego di sansa denocciolata, anche della shelf-life.
L’allevamento di chianina richiede accortezze particolari?
La chianina ha dimensioni tali e aspetti caratteriali che la rendono un animale prima di tutto da conoscere, poi da allevare. È per questo motivo che, nonostante la richiesta della sua carne sia in crescita, il numero di allevamenti e di capi non cresce come ci si potrebbe aspettare. La sua tecnica di allevamento e alimentazione è regolamentata da un disciplinare: ad esempio, nell’ultimo periodo di allevamento (finissaggio) della durata di quattro mesi, gli animali non possono essere alimentati con foraggi insilati, ed è vietata la somministrazione di alcuni sottoprodotti dell’agro-industria. Inoltre, poiché molti allevamenti sono ubicati in aree montane, con animali prevalentemente al pascolo, consumare carne appartenente alle razze italiane significa contribuire alla salvaguardia del territorio, spesso a rischio idrogeologico.
È cambiato qualcosa rispetto al passato? La tecnologia ha aiutato la diffusione e l’affinamento della razza?
Fino alla metà degli anni Sessanta del secolo scorso, la chianina era principalmente allevata come animale da lavoro e solo dopo l’avvento della meccanizzazione agricola per la produzione di carne. Tuttavia il suo numero si è progressivamente ridotto, subendo la concorrenza di carni provenienti dall’estero o di animali allevati solo negli ultimi 6-8 mesi in Italia. È stata l’istituzione del Consorzio Carni Bovine Italiane prima e dell’IGP del Vitellone Bianco dell’Appennino Centrale poi, a far risvegliare il consumo di carni appartenenti alle nostre razze bovine, salvaguardandole. Si è anche modificata la tecnica di allevamento: dopo un periodo di 6-8 mesi passati in allevamenti semiestensivi posti in aree montane, i capi vengono poi spostati in pianura.
Quali sono i numeri di questo tipo di allevamento?
Gli animali iscritti al Libro Genealogico sono 1.469 (31/12/2017) per un totale di 45.700 capi iscritti (ANABIC, 2018) di cui 22.448 vacche.
Chianina è sempre sinonimo di qualità? Perché?
Il nome della razza di per sé non è sinonimo di qualità; bisogna infatti conoscere la storia dell’animale. Da una parte, l’acquisto di prodotti certificati ci dà la garanzia che siano ottenuti secondo determinate procedure e quindi che ci sia una certa uniformità anche dal punto di vista nutrizionale; dall’altra, ciò potrebbe non essere sufficiente. Una carne di chianina certificata BIO è sicuramente diversa da una certificata IGP o dal CCBI, perché cambia la tecnica di allevamento e di alimentazione. Non va dimenticato che alcune caratteristiche dipendono dalle fasi che precedono la macellazione dell’animale e dai tempi e modalità di frollatura della carcassa.
Come le piace mangiarla?
Personalmente consumo carne di chianina, certificata, in quantità ridotte e non più di una volta alla settimana, acquistata dal mio macellaio di fiducia e prodotta da persone di cui conosco i metodi di allevamento. Il motivo di questa scelta è legato alla consapevolezza di garantire la sicurezza economica di almeno due famiglie di cui una, quella dell’allevatore, che vive in un territorio, quello umbro, che necessita della presenza dell’uomo per la sua salvaguardia. Come la mangio? A seconda del taglio e delle modalità di cottura che esso richiede, ma sempre poco condita per esaltarne il sapore.